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Esperienze

Chi è uno psicoanalista "lacaniano"?
Con il termine psicoanalista lacaniano indichiamo il professionista che pratica la psicoanalisi ispirandosi all'insegnamento dello psichiatra, psicoanalista (e di fatto filosofo) francese Jacques Lacan (1901-1981), portandone avanti l'eredità tramite un atteggiamento di ricerca e di interrogazione continua a partire dalla clinica incontrata nel qui ed ora del tempo presente.

In cosa consiste concretamente il principale lascito di Lacan per un clinico al di là delle stimolanti speculazioni che tutt’ora impegnano intellettuali e filosofi nell'interpretazione della complessità del suo pensiero? Perché è ancora così moderno per chi si confronta con il malessere psichico? E come opera lo psicoanalista post lacaniano alle prese i nuovi sintomi e le nuove dinamiche psichiche, già prefigurate dal maestro?

Esiste una clinica 'classica', descritta già da Sigmund Freud, che Lacan riprende, rilegge, commenta, espande a partire dal concetto di inconscio 'strutturato' come un linguaggio.
I sintomi di cui patiscono i soggetti 'nevrotici' non rappresentano altro se non la stessa 'lingua' dell'inconscio, che si esprime attraverso metafore. Allora, ad esempio, una contrattura muscolare inspiegabile (sintomo corporeo) o un pensiero fisso (sintomo perturbatore dell'attività di pensiero) possono essere letti come simboli di qualcos'altro, di pulsioni, di idee inconsce, rimosse.
Queste trovano il modo di 'dirsi', di rivendicare il diritto alla loro parola, andando a mettersi di traverso alla volontà cosciente, all'illusione di controllo e di sintesi operata dall'Io.

Il grande merito di Lacan è quello di aver messo in valore la dimensione dell'inconscio come frattura nella compattezza egoica. Il noto principio cartesiano "cogito ergo sum" viene messo radicalmente in discussione. L'illusione di essere, di consistere attraverso l'esercizio della razionalità viene smascherata dalla presenza dei sintomi, sentinelle dell'inconscio, dalla realtà universale della 'divisione soggettiva'. Nessun uomo coincide con se stesso, ciascuno di noi è sempre altro rispetto a ciò che crede di essere. C'è una cecità strutturale verso noi stessi. Siamo creature contraddittorie, 'divise' appunto.
La malattia nevrotica sorge dal rifiuto della complessità interna, da un “non volerne sapere” in nome del miraggio narcisistico della riunificazione nell' 'Io sono'.

Nel sostenere ciò Lacan si colloca in una posizione critica nei confronti dei così detti 'post' freudiani e per certi versi contro Freud stesso. Il quale sì, scopre l'inconscio e i suoi meccanismi, ma resta abbagliato dall'ideale di poter riassorbire tutto l'Es nell'Io.
Su questa scia, la corrente della ‘Psicologia dell'Io’ sostiene l'esistenza di una 'zona dell'Io libera da conflitti', e fa coincidere la fine dell'analisi con la riconquista della padronanza perduta. Cosa del tutto errata per Lacan, secondo il quale la fine analisi consiste, al contrario, con l'assunzione della propria contraddizione interna, nell'ottica di un'alleanza non difensiva con la parte scabrosa, scomoda e mai liquidabile una volta per tutte di noi stessi.
Il dinamismo dato dal conflitto viene valorizzato come elemento vitale e la sua accettazione porta con sé l'attenuazione sintomatica, perché il sintomo, che grida le ragioni dell'Es, non è più indispensabile all'inconscio per farsi finalmente ascoltare.

'Desiderio' è il nome dell'inconscio, 'desiderio' è il nome di ciò che ci tormenta se non gli prestiamo ascolto, se rifuggiamo dal prenderci la responsabilità di capirne il messaggio e di seguirne la chiamata. Soprattutto quando il percorso comporta deviazioni dalla strada più comoda, più sicura, più nota.

La modernità di tale insegnamento allora è del tutto evidente e applicabile nella pratica clinica. Oggi, in particolar modo, gli esseri umani sono confrontati con la questione intima, profonda, del proprio desiderio che si declina nelle varie età della vita: da bambini, quando c'è ancora la dipendenza dall'Altro genitoriale ma già si mostra il tratto soggettivo, ancora da ragazzi, quando l'interrogativo di fronte al futuro costituisce il sottofondo costante delle giornate, e poi da adulti, nel momento in cui le scelte compiute inchiodano alla verità: 'ho seguito davvero le mie passioni? Ho rischiato?'
Sembra contro intuitivo ma il momento della supposta pienezza, la vita adulta, spesso coincide con quello del risveglio: 'ho vissuto davvero la mia vita oppure il sogno di un Altro? E perché?'
Molte psicoanalisi iniziano così, a quaranta, a cinquant'anni, e possono invertire un destino già segnato, far risorgere la vita dalla desertificazione dell''ormai'.

Ma i tempi moderni sono anche quelli dell'eclissi del desiderio.
Non della sua negazione nevrotica ossessiva, non del suo inconcludente rilancio isterico, ma della sua cancellazione (tecnicamente “forclusione”) generalizzata.
Oggi, venendo a mancare un principio di stampo paterno solido sia nei termini di limitazione che di identificazione, ci troviamo di fronte ad un dilagare di pratiche di ‘godimento’ sganciate dal desiderio e dalla pulsazione vitale che produce qualcosa di costruttivo.
‘Tutto e subito’ è l’imperativo presente, la pulsazione c'è ma è maniacale, convulsa, non regolata, non incanalata, troppo impaziente, troppo intollerante alla benché minima frustrazione.
Se l’assunzione del desiderio comporta la possibilità dell’errore, dello sbandamento, del ‘provarci e riprovarci’, la vita in nome della soddisfazione immediata diventa dissipazione, ricerca acefala della sensazione del momento.
L’abuso di droghe, le relazioni ‘usa e getta’, la prevalenza dell’oggetto sul soggetto, la depressione ‘da comfort’, l'ansia non contenuta che diventa panico, rivelano il fondo mortifero e autodistruttivo della pulsione non sottoposta ad alcuna interdizione.
Così il soggetto si perde, lentamente scivola nell’abulia o nel rapido spegnimento di ogni barlume di iniziativa.
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