Riflessioni sulla dermatologia psicosomatica
Esperto Giuseppe Hautmann • Dermatologia • 1 marzo 2017 • Commenti:
La pelle: un tramite per alterazioni "psicosomatiche"?
In relazione alla sua eccezionale significatività, la pelle, oltre che luogo di formazione psicologica, può anche essere il tramite più espressivo per manifestare disagi interiori attraverso alterazioni "psicosomatiche" della sua superficie (attraverso quindi un processo di somatizzazione, cioè della tendenza a provare e a comunicare la sofferenza psicologica sotto forma di sintomi fisici).
Potremmo dire che la stessa sede da cui sono state mediate le difficoltà psicologiche di un individuo, con le sue complesse dinamiche, può successivamente divenire per lui strumento di trasmissione di singolari messaggi “grafici” relativi a quelle stesse difficoltà profonde. In un disturbo psicosomatico di questo tipo, l’allontanamento e la decurtazione del dolore profondo o del conflitto ansiogeno non vengono quindi ottenuti con trasformazioni e con mutazioni diverse nell’ambito del pensiero e del comportamento, bensì con la espulsione di queste tensioni dall’area stessa dello psichico e del simbolico e con la loro trasformazione in quel disordine fisico che è la sofferenza, il dolore e la malattia di un organo.
Alcuni esempi
Un possibile esempio è costituito dai soggetti dismorfofobici, cioè quei soggetti convinti di essere fisicamente deformi, o di avere comunque dei difetti fisici, mentre il loro aspetto è di solito del tutto normale o accettabile.
In ambito dermatologico, oltre a pazienti con modeste lesioni cutanee localizzate in sedi del corpo particolarmente "significative", il volto in particolare, che evocano nel soggetto angoscia e preoccupazione, esistono anche soggetti tormentati dall’idea (generalmente del tutto ingiustificata o solo parzialmente giustificata) che una o più parti del loro corpo siano deformate o in qualche modo alterate o anomale.
Questi pazienti sono di fatto dei soggetti con note dismorfofobiche e che generalmente non presentano un quadro psichiatrico di psicosi conclamata, né presentano caratteristiche formali del delirio centrato sul corpo, ma sono soggetti con disturbi profondi del rapporto io-realtà in cui, dal punto di vista fenomenico, il sintomo non raggiunge il livello di delirio, ma è spesso ancora possibile un certo esame della realtà.
Un sintomo frequente di questo tipo di dismorfofobico è la riferita sensazione di bruciore del volto, molto spesso accompagnato a rossori riferiti come persistenti, o alla eccessiva untuosità (descritta a volte come “schifosa”, sgradevole e maleodorante), ma di fatto quasi inesistenti.
Ancor più frequente è il riferimento a aree cutanee piccole: le pazienti si vedono, per lo più sul volto, un rilievo, una depressione che noi non vediamo o aree di ipertricosi o rughe, o macchie pigmentate o cicatrici che, ostacolano o impediscono di condurre una normale vita pubblica di relazione o, addirittura di uscire di casa, se non previo accurato camouflage che può richiedere varie ore di trucco, perché angosciate dalla loro stessa percezione di sentirsi o essere sentite sgradevoli.
Raccontano di rituali che occupano molto del loro tempo, trascorso di fronte a specchi che ingrandiscono la loro immagine riflessa, volti a scoprire ogni minima alterazione sul loro volto. Sono tutti segni, quelli accusati dalle pazienti, in realtà, che il dermatologo spesso stenta a scorgere anche con lenti di ingrandimento e illuminazione adeguata.
Frequentemente vediamo anche soggetti che, riferendo di una perdita di capelli mentre si pettinano, sono angosciati dall'idea di divenire, in futuro, totalmente calvi; e, caratteristicamente, questa convinzione, quasi assoluta, ma quasi sempre del tutto infondata, viene enunciata subito, all'inizio del colloquio. Spesso questi soggetti portano con sé, da mostrare al medico, in visione i capelli caduti, e/o hanno annotato su di un taccuino la perdita giornaliera dei capelli nelle ultime settimane, addirittura mesi, a sottolineare ulteriormente la loro angoscia.
Fanno spesso riferimento ai molti altri specialisti che hanno in precedenza consultato, quasi sempre, a loro dire, con risultati negativi, in quanto le prestazioni non hanno corrisposto alle loro aspettative.
Sono così assolutamente convinti di avere una patologia dermatologica che reagiscono male al consiglio di una eventuale consulenza psichiatrica, forse peggio degli altri pazienti dermatologici con dermatosi in cui evidenti fattori psico-emotivi possono giocare un ruolo sia eziopatogenetico che nel decorso della malattia stessa.
La consulenza con il dismorfofobico occupa di solito un tempo maggiore rispetto alla normale consulenza dermatologica e ci sembra un dato caratteristico notare che questo tempo di visita rimane sempre più o meno costante anche nei successivi controlli, a differenza degli altri pazienti, definiamoli “psicosomatici”, che sembrano recepire meglio le precedenti spiegazioni e chiarimenti. Questi pazienti non sembrano recepire i messaggi verbali e non verbali indicanti che la consulenza volge al termine, e anche se vengono gentilmente condotti o indirizzati verso la porta o, talvolta, se
necessario, anche fuori, è abbastanza comune sia che la porta si rispalanchi nuovamente sia che il paziente telefoni pochi minuti dopo la consulenza per porre nuovamente le solite domande poste in precedenza circa il suo problema, sempre in cerca di rassicurazione alle proprie idee.
Un altro possibile esempio di pazienti che ricorrono al dermatologo, ma in cui in realtà il problema cutaneo o mucoso è spesso espressione di veri e propri problemi psichiatrici, è costituito dalle forme idiopatiche di glossodinia, in cui i pazienti, o più spesso, le pazienti, sono generalmente donne sui 50 anni, lamentano, sono “ossessionate” dalla sensazione di bruciore, dolore, prurito, secchezza (xerostomia), sensazione di avere "la sabbia in bocca".
Molte di loro hanno la lingua sempre in movimento: la lingua viene sfregata, pigiata contro i denti, mordicchiata, e anche toccata con le mani per cercare sollievo o per scoprire gonfiori o lesioni, (talora con sottofondo "cancerofobico") lesioni che quasi mai esistono. Spesso la glossodinia risulta essere una manifestazione somatica di un "disagio - disturbo - malattia" psicologico-psichiatrico che può variare entro un ampio range, da semplice reazione a life stress events contingenti a manifestazioni di ansia o depressione fino a forme ipocondriache gravi di cancerofobia.
Infatti, sebbene la maggior parte della letteratura al riguardo sia per lo più aneddotica, è di frequente riscontro in questi pazienti una personalità ansiosa, introversa, tendente alla depressione e all'ipocondria, e l'associazione con stress psicosociali.
Sarti e Cossidente hanno incluso, nel 1984, la GD idiopatica tra le varie forme di ipocondria, in accordo con Obermayer che, citando Moulton, faceva risalire la base psicologica del disturbo a frustrazioni sessuali e ad una ansietà inerente la sfera sessuale all'avvicinarsi della menopausa. Spesso poi, questi soggetti, secondo Sarti e Cossidente, presentano sentimenti di paura e colpa, non escludendo che la GD possa rappresentare un equivalente depressivo. Tali pazienti spesso negano un umore depresso, anche se ciò è evidente per il medico.
Ai tests psicometrici, volti a misurare l'ansia (sia di stato che di tratto), la depressione e la risposta somatica allo stress i pazienti con glossodinia sono risultati, anche per nostra esperienza, presentare punteggi più elevati, sia rispetto a soggetti sani, sia rispetto a soggetti con altre malattie somatiche.
Come ricordato in precedenza, poi, la glossodinia è spesso connessa con la cancerofobia. In ambito psichiatrico è stato perfino ipotizzato che questa forma simbolizzi la paura della morte (come la paura del cancro) per la sua localizzazione nella cavità orale che è, tra l'altro, la sede della introduzione del cibo, direttamente connessa alla conservazione della vita.
Oltre ai soggetti che manifestano queste dinamiche di repressione e conversione, esistono anche soggetti caratterizzati da una marcata coartazione della vita emozionale che si riflette eventualmente anche a livello cutaneo con vari tipi di patologia. Si tratta di quei soggetti per i quali Sifneos nel 1972 ha introdotto per la prima volta il termine "alexitimia", esprimente il concetto di "mancanza di parole per le emozioni" e riferentesi ad un particolare stile affettivo-cognitivo comportamentale, caratterizzato da una difficoltà del tutto peculiare di riconoscimento e comunicazione delle emozioni.
Vi è difatti nella personalità alexitimica (di frequente riscontro in molti pazienti dermatologici) una marcata riduzione, o addirittura l'assenza, di un pensiero simbolico e capace di introspezione mentre si ha la prevalenza di un pensiero centrato sulla realtà esterna (“pensiero operatorio” di Marty) con povertà dell’attività di fantasia. In tali personalità (frequenti in ambito dermatologico, per esempio molti pazienti affetti da psoriasi o da alopecia areata), si riscontra spesso una notevole difficoltà nella discriminazione della componente fisica da quella psicologica dell'attivazione emozionale e la difficoltà nell'identificazione e nella comunicazione dei propri sentimenti.
In altre parole, per quanto questi soggetti possano riferire delle crisi, anche violente, di rabbia, di ansia o di turbamento, difficilmente tuttavia, se interrogati al riguardo, essi sono in grado di precisare in modo sufficientemente adeguato la natura e il contenuto dei propri vissuti.
Questo può riflettersi sul piano psicologico anche con una evidente mancanza di empatia, che, nel contesto di una relazione medico-paziente, può rivelarsi come un fattore anti-terapeutico.
Infatti, la carenza di empatia da un lato, unitamente alla carenza di pensiero simbolico, e alla difficoltà di interpretazione delle emozioni dall'altro, risultano tutti fattori in grado di rendere per questi pazienti particolarmente problematica una psicoterapia.
Il dermatologo dovrebbe in conclusione essere pronto a individuare il caso che può suggerire nosologicamente la presenza di queste suddette determinanti psicosomatiche; dovrebbe cioè tendere fin dall’inizio delle indagini a valorizzarlo anche sotto quel profilo in modo da acquisire in sè la capacità di cogliere quelle componenti di sofferenza psichica che in quel paziente, trasformandosi nella “sofferenza del corpo”, tendono sistematicamente a mascherarsi.
Sarebbe necessario operare in questo senso perché il possibile meccanismo di metamorfosi psicosomatica non trovi avallo o facilitazione in una cognizione incompleta del processo stesso con valorizzazione degli effetti ed ignoranza delle origini. Insomma, il meccanismo patoplastico non dovrebbe essere rinforzato dall’errore culturale.