Disregolazioni emozionali, disturbo borderline e crimine

Psicologia, Psicologia • 25 novembre 2016 • Commenti:

La cronaca attuale mostra sempre più spesso casi di delitti efferati, a sangue freddo, inspiegabili. Ma cosa porta certi individui a commettere tali crimini? La loro personalità? L’ambiente in cui hanno vissuto e nel quale sono stati cresciuti? Cattive frequentazioni? Si e no. La risposta può a volte essere connessa all’incapacità di regolare le proprie emozioni.

 

L’incapacità di gestire le emozioni può sfociare in comportamenti criminali?

Questa condizione può rendere un individuo incapace nel rapportarsi alle richieste dell’ambiente, per processi di misattribuzione o incomprensioni. I problemi di regolazione emozionale possono inoltre derivare da disturbi psicopatologici, quali il disturbo borderline di personalità, ed essere maggiormente riscontrati in determinate categorie criminali. Numerosi autori hanno studiato il comportamento criminale come una forma di regolazione emozionale disfunzionale. Il modello di frustrazione-aggressione di Dollard fu il primo a teorizzare che la condotta aggressiva è una risposta ad uno stato di frustrazione.

Questa teoria fu poi ampliata, sostenendo che la frustrazione determina una risposta aggressiva solo in condizioni nelle quali provoca un’emozione negativa. Adottando questa visione, ne consegue che quanto più si è suscettibili ad emozionalità negativa, tanto più alto sarà il rischio di commettere atti criminali. Attenzione però: si parla di rischio, non di certezza! L’errore più comune, infatti, è di fare di tutta l’erba un fascio, per tranquillizzarci o per fare maggiore chiarezza.

Per tranquillizzarci in quanto è più semplice interpretare i delitti efferati se l’esecutore viene etichettato come “malato”, piuttosto che accettare l’oscurità dell’animo umano. Per fare maggiore chiarezza in quanto purtroppo, o per fortuna, sul comportamento umano non si può mai essere deterministici, non possiamo spiegare la nostra complessità meramente in termini causa-effetto, e ciò ci crea confusione.

Coloro che hanno difficoltà nel regolare le emozioni possono, quindi, tendere a comportamenti antisociali o autolesionistici (si pensi all’immagine più conosciuta del paziente borderline come colui che si provoca tagli), ma non è detto che lo faranno. Così come esistono personalità criminali che non presentano il tratto di disregolazione emotiva né tantomeno una diagnosi psicopatologica anzi, sono al contrario perfettamente consci delle proprie emozioni, freddi e programmatori nel gestirle e nel gestire gli agiti criminali. È perciò importante sottolineare che esiste una multi causalità in quasi ogni comportamento umano: non possiamo dichiarare che la disregolazione emozionale sia l’unica causa del comportamento criminale. Bisogna considerarne molte altre, quali la personalità, il momento dell’azione, l’eventuale assunzione di sostanze stupefacenti, il background culturale etc.

 

Dinamiche delle emozioni: il comportamento criminale una forma di regolazione emozionale disfunzionale?

Le emozioni sono suddivisibili in dinamiche (provocate da un determinato stimolo) e disposizionali (aspetti stabili, riconducibili al temperamento): questo potrebbe farci pensare che davvero esistono individui “disposizionalmente” propensi al crimine. Molti studiosi si sono perciò interessati alla rabbia di tratto: persone che presentano questa dimensione in grado elevato sono molto reattive agli stimoli ostili e tendono ad esperire la rabbia maggiormente rispetto a chi ha bassa rabbia di tratto. Il comportamento criminale potrebbe quindi essere visto come una forma di regolazione emozionale disfunzionale, della rabbia per l’appunto.

La legge italiana considera attenuante di reato il dolo d’impeto (in quanto determinato da uno sconvolgimento emotivo che determina il passaggio all’atto, quindi nel quale si presuppone non ci sia premeditazione) a differenza di quello di proposito, considerato aggravante. Così assumendo, prende per buono l’assunto che l’emozione sia una forza disfunzionale a cui bisogna resistere: chi non ci riesce viene condannato ma giustificato attenuando la pena. Sembrerebbe quindi che i criminali che hanno commesso i reati sotto la spinta emotiva siano considerati meno dediti all’agire criminale, più facilmente riabilitabili. Però, ci sono alcune evidenze che non possono essere tralasciate in seguito a queste dichiarazioni.

Innanzitutto, in psicologia la differenza tra reattivo (d’impeto) e proattivo (di proposito) non dipende dall’emozione o dall’intenzione ma dalla motivazione e dall’attivazione comportamentale. Sarebbe quindi corretto valutare anche queste dimensioni nel determinare il tipo di dolo col quale ci si confronta. In aggiunta, la tendenza ad agire fa parte dell’emozionalità definita disposizionale, quindi stabile e pressoché immodificabile. Quindi, se un individuo ha agito per impeto nel caso per il quale è stato condannato, non è detto che non sia una persona violenta né che sia meno pericoloso socialmente di chi è stato condannato maggiormente perché pianificatore. Inoltre, entrambe le condizioni di dolo possono esplicitarsi in condizioni di normalità o patologia: gli psicopatici, ad esempio, possono sembrare eccessivamente abili, privi di rimorso e freddi per essere “malati”, quando in realtà lo sono alla stregua di chi presenta un disturbo borderline. In realtà, alla base di questo disturbo sembrano esserci disfunzioni biologiche legate anche ai circuiti emozionali.

In sintesi, i fattori che contribuiscono alla genesi della violenza possono essere di natura biologica (disfunzioni in seguito a traumi cranici, neurotrasmettitori, ormoni), psicologica (disturbi di personalità, psicosi, basso QI), sociale (culturali e professionali).

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