Psicopatia, il primo disturbo di personalità in psichiatria
Esperto Rebecca Silvia Rossi • Psicoterapia • 23 novembre 2016 • Commenti:
Storia della psicopatia
Il termine psicopatia è largamente usato nel linguaggio comune, la maggior parte delle volte in modo errato. In questo articolo si cercherà di fare un po’ di chiarezza in merito: la psicopatia può essere intesa come una sottoclasse del disturbo antisociale di personalità, più incentrata sui tratti affettivi ed interpersonali rispetto a quelli comportamentali.
Si potrebbe addirittura sostenere che la psicopatia sia stato il primo disturbo di personalità ad essere identificato in psichiatria. Infatti, già agli inizi dell’Ottocento del secolo scorso si parlava di disturbi che oggi potremmo associare alla psicopatia:
Esquirol col termine monomania intendeva una lesione della volontà, indipendente da un disordine delle idee. Questo concetto fu anche portato nella pratica forense, come capace di escludere l’imputabilità del reo in quanto toglie a colui che ne è colpito la responsabilità della sua condotta.
In quegli stessi anni, il fatto di riconoscere l’esistenza di malattie capaci di distruggere l’autocontrollo (quali la monomania) e la conseguente presenza di criminali efferati ed irrimediabili, rafforzava la convinzione dell’esigenza della pena di morte, non della loro impunibilità.
Ad oggi, la comunità scientifica condivide l’opinione che la psicopatia predispone al comportamento antisociale in quanto include tratti comportamentali quali l’irresponsabilità, l’impulsività, la propensione a quei comportamenti definiti, appunto, antisociali.
Tuttavia, dal momento che il focus nella diagnosi di psicopatia verte sugli aspetti emotivi ed emozionali di essa, la percentuale di persone con una diagnosi di questo tipo è molto bassa in quanto tali fattori sono molto più difficili da valutare rispetto al comportamento.
La valutazione di psicopatia, inoltre, richiede maggior focalizzazione su quello che l’individuo non fa quando dovrebbe farlo, non su quello che fa: è l’assenza di comportamento che permette di fare una valutazione accurata, condizione assai difficile da segnalare. Decisivi per quanto riguarda la psicopatia nell’attuale definizione sono i lavori di Robert Hare ed Harvey Cleckey.
Harvey Cleckley e Robert Hare: il contributo alla nuova definizione di “psicopatia”
Harvey Cleckley, nel suo famoso libro “The mask of Sanity” prende in considerazione un gruppo di persone difficile da trattare per la legge americana, in quanto considerate legalmente capaci di stare in giudizio, ma più spesso ricoverate in ospedale piuttosto che recluse in prigione a causa di una vita interiore senza alcuna razionalità. In questo scritto, Cleckey delinea tredici criteri per la diagnosi di psicopatia, riferendosi alla concettualizzazione dei tratti:
1. fascino superficiale e intelligenza buona;
2. assenza di deliri e di altri segni di pensiero irrazionale;
3. assenza di nervosismo o di manifestazioni psiconevrotiche;
4. inattendibilità;
5. falsità;
6. mancanza di rimorso o vergogna;
7. comportamento antisociale non sufficientemente motivato;
8. scarsa capacità di giudizio e di apprendimento dall’esperienza;
9. egocentrismo patologico ed incapacità di amare;
10. generale inconsistenza nelle reazioni emotive;
11. mancanza di coscienziosità;
12. insensibilità nelle relazioni interpersonali;
13. comportamento stravagante (qualche volta associato ad abuso alcolico).
Quella di Cleckley è la prima descrizione clinica completa del soggetto psicopatico, che viene definito come un individuo contraddistinto da un comportamento disordinato, poco in sintonia con le richieste della società, anche se non riconducibile alla psicosi.
La sua analisi parte da una serie di casi clinici provenienti direttamente dalla sua esperienza e non si ferma alla descrizione delle caratteristiche comportamentali e psicologiche di essi, bensì cerca di inglobare il tutto in una classificazione coerente e completa.
Questo lo porta alla conclusione che vi è grande difficoltà nel definire tipologie prototipiche di soggetti psicopatici, in quanto troppe sono le aree di sovrapposizione e confusione dei vari quadri.
Una caratteristica che accomuna quasi tutti gli psicopatici è, per Cleckey, il modo superficiale e indifferente di rapportarsi agli altri, che porta l’autore a ritenerli mancanti di un’umanità fondamentale. La personalità inferibile dai tratti proposti da Cleckey non solo è caratterizzata da un comportamento irresponsabile persistente ma, anche e soprattutto, da un importante disinvestimento emotivo.
Esiste un profilo del “perfetto psicopatico”?
Sia Hare che Cleckey sostengono l’impossibilità di delineare il profilo del “perfetto psicopatico”. Infatti, pur riuscendo a delineare (a grandi linee) dei tratti comuni ai soggetti psicopatici non si può fare un identikit preciso, dal momento che lo psicopatico è molto bravo a mascherarsi davanti alle persone, a nascondere i suoi tratti salienti, identificativi, al fine di manipolare o ingannare chi ha davanti.
Per questo, non è sufficiente una lista coi tratti caratteristici di questa tipologia di soggetti per riconoscerne uno. A favore di questa tesi, il fatto che anche esperti ben addestrati molte volte vengono raggirati dagli psicopatici che incontrano nel loro lavoro.
Hare ha tentato però di operazionalizzare le definizioni effettuate da Cleckey in una scala di item, valida ed affidabile su base empirica. Da questo tentativo è emersa nel 1980 la PCL (Psychopathy Check List) e la sua revisione, PCL-R (Psychopathy Check List-Revised).
La PCL-R è una scala diagnostica costituita da 20 item riguardanti caratteristiche sia comportamentali sia della personalità, ognuna indicante un determinato tratto psicopatico. Questi item sono:
1. fascino facile e superficiale;
2. grandioso senso di autostima;
3. bisogno di stimoli;
4. mentire patologico;
5. tendenza all’imbroglio e alla manipolazione;
6. assenza di rimorso o senso di colpa;
7. affettività superficiale;
8. insensibilità, mancanza d’empatia;
9. stile di vita parassitario;
10. scarso controllo comportamentale;
11. comportamento sessuale promiscuo;
12. problemi comportamentali ad esordio precoce;
13. carenza di obiettivi realistici a lungo termine;
14. impulsività;
15. irresponsabilità;
16. incapacità di accettare la responsabilità delle proprie azioni;
17. delinquenza giovanile;
18. versatilità criminale;
19. numerose relazioni di breve durata;
20. revoca della libertà condizionale.
Analizzando i risultati dei test su un vasto campione di popolazione Hare ha individuato tre sottotipi di psicopatici:
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primary psychopaths: i “veri psicopatici”. Si presentano come persone socialmente introdotte, affascinanti, padroni di sé, ma incapaci di provare alcuna emozione. Vengono definiti come manipolativi in quanto sanno recitare bene, suscitando emozioni nei loro interlocutori senza però provarne alcuna;
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secondary (neurotic) psychopaths: hanno problemi emozionali, conflitti interiori e psicologici, che spesso li portano a delinquere. Sebbene i primari siano definiti i “veri psicopatici” i secondari sono quelli che più probabilmente vengono a contatto con la legge dal momento che sono caratterizzati da un disturbo di impulsività estrema;
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dissocial psychopaths: mostrano comportamenti aggressivi ed antisociali appresi dalla loro cultura di appartenenza, quindi è considerabile come “creato” dall’ambiente.