Il “non sapere” dello psicologo
Esperto Rebecca Silvia Rossi • Psicologia • 21 novembre 2016 • Commenti:
Il paziente: un’entità unica e complessa
Ogni paziente è unico, diverso da qualsiasi altro, seppur possa presentare caratteristiche simili ad altri. Ciò che accomuna qualsiasi persona si presenti ad un primo colloquio psicologico è il suo star male.
La persona in questione soffre e sta chiedendo aiuto. Questo è quanto lo psicologo sa in un primo momento, e deve associarlo alla consapevolezza che tale persona è complessa e, in quanto tale, non conoscibile in modo diretto ed immediato.
Per poter intervenire ed aiutarla, è necessario farsi un’idea del perché soffre in modo poi da costruire assieme un percorso verso l’obiettivo finale che è (o dovrebbe essere) il superamento della sofferenza che la affligge e che l’ha portata a chiedere aiuto.
Ma come si persegue questo obiettivo? Basandosi sulla propria teoria dell’essere umano, seguendo un metodo, ed utilizzando una tecnica con creatività, in quanto se si ritiene ogni persona unica, così come la sua storia, non si può creare una tecnica universale, bensì sostenere l’approccio creativo dell’analista, costruito per quel preciso paziente e con esso.
Per poter accogliere il paziente privi di giudizi a priori in merito alla sua sofferenza, è necessario tenere a mente che la teoria del terapeuta in merito a ciò che l’essere umano è avrà una sua influenza nella valutazione. Ricordarlo aiuta lo psicologo ad accogliere colui che chiede aiuto con un ascolto possibilista, sempre tenendo in considerazione che inevitabilmente lo si sta ascoltando col proprio bagaglio esperienziale e concettuale.
La sofferenza del paziente non nasce dal rapporto “bene-male”
Il compito dell’analista sarà di aiutare, sostenere, leggere quello che il paziente porta alla luce dei suoi criteri metateorici, in modo da aiutarlo nel suo percorso. Questo perché non si può sapere cosa sia il male o il bene per il paziente che si ha davanti, in quanto la sofferenza nasce dal proprio rapporto con la realtà, non dalla dicotomia bene-male.
Non esiste, perciò, un fattore terapeutico esterno al singolo soggetto: quello che per l’analista è guarigione non vuol dire che lo sia anche per il paziente, o per un altro analista.
Ciò significa che iniziare una terapia con già un’idea in testa in merito al motivo della sofferenza del paziente impedisce di immergersi in modo completo e puro in quello che la persona è e porta. Per questo motivo è di fondamentale importanza da parte dell’analista l’ascolto aperto e possibilista, l’interesse sincero e profondo e, da parte del paziente, la volontà di essere coinvolto alla scoperta di sé stesso.
Quale approccio terapeutico devono seguire analista e paziente?
Nell’intervento analitico bisogna tenere a mente che ogni paziente ha il proprio modo di comunicare il suo malessere, il suo modo di verbalizzare il suo stato, allo psicologo e a sé stesso.
E allora qual è l’obiettivo dell’intervento analitico? Non avendo una teoria sul malessere e, quindi, sul benessere, è difficile delineare una strategia da seguire finalizzata ad un obiettivo.
L’intervento terapeutico deve mirare al cambiamento, che sarà sempre diverso in ogni paziente, perché ogni paziente è diverso dagli altri. Davanti ad un paziente che chiede aiuto in quanto soffre, è necessario che il terapeuta si ponga scevro da qualsiasi presunzione di sapere cosa sia meglio per lui, quale deve essere il cambiamento che attenuerà la sua sofferenza.
Si parte dal paziente, da quello che porta, da quello che è, per arrivare ad una meta che ancora è sconosciuta, attraverso la relazione analitica e la co-costruzione di significati.